Stefano_Sambati

Nizza 23 giugno 2013, sono le 4: 20. Suona la sveglia, benché sono giá sveglio, mi dice che mi devo alzare dal letto per affrontare il mio sesto Iron Man. Mi trovo a Nizza a casa di Chiara, un’amica che molto carinamente ci ha dato ospitalitá. Come nel 2010 c’é una Chiara, mi da speranza nella buona realizzazione della gara. Come dicevo la sveglia mi fa alzare, Paola é sempre con me, volevo farla dormire, ma alla domanda se mi faceva piacere che venisse non ho resistito le ho risposto molto volentieri. Così colazione e via verso la promenade. Come delle api verso l’alveare i triathleti si dirigono alla zona cambio, c’é chi ride, chi chiacchiera chi ha la tensione in volto, ma tutti siamo lì per affrontare questa gara che a mio avviso é sempre bella tosta. 6 e 20 parte la gara per i Pro, questi super uomini di acciaio che in poco piú di otto ore terminano un ironman. Si allontanano velocemente verso la prima boa, ma ormai é questione di minuti e tocca anche a noi. Musica, speaker e folla fanno da contorno a questi oltre 2800 triathleti; la tensione sale, la mia posizione é arretrata perché a parte la maratona di marzo a Barcellona, quest’anno non ho ancora coperto la distanza delle tre disciplie, ma la mia filosofia é quella di arrivare in fondo. La sirena dà il via e appena mettiamo i piedi nell’acqua bisogna nuotare: il fondale va subito giù, mi sento strattonato da tutte le parti e nuotare diventa dura. Ci diamo calci e manate per tutta la gara. Bevo, recupero gli occhialini, mi devo fermare più volte per rinfilare la cuffia; sono talmente imbottigliato in questo traffico che finisco il primo giro senza vedere una boa, non so dove vado, seguo la massa. Il mare nn é calmo e questa onda lunga a ricordo delle Hawaii non aiuta per niente, cosí dopo 1h e 20′ venti esco dall’acqua. Anche qui tutti si dirigono verso la zona di transizione, non trovo la mia borsa, così una volontaria mi aiuta. Penso a Paola: anche lei fará così per tanti atleti in difficoltá. Ha chiesto di fare la zona velo, ma ora é tempo di sfilarsi la muta e infilare casco occhiali e, visto i 180 km di bici da affrontare, anche le calze. I piedi sono umidi e faccio fatica, ma alla fine mi trovo a prendere la bici, la spingo verso la start line. Mi infilo le scarpette e via, passo i primi 30 km a ”vomitare” acqua salata, ripristino l’acqua con la borraccia ma non riesco a tenerla giù. Mi preoccupo, ho paura di disidratarmi, ma dopo il pericolo passa; continuo a bere e a mangiare abbastanza regolarmente. I primi 90 km sono i piú tosti e le mie caratteristiche di non scalatore me lo ricordano. Il problema é nel cambio, non riesco ad utilizzare alcuni rapporti e sono costretto a salire in agilitá. Questo mi fa sorpasare da una marea di atleti, ma al terzo ristoro ho un inconveniente meccanico: il porta borraccia si stacca e mi si incastra nei pedali, sto in piedi per miracolo e, liberandomi della borraccia, lo riposiziono e riprendo a pedalare. Al ristoro successivo, nel provare ad infilarci la borraccia, il problema si ripete; sono costretto a fermarmi e cerco di sistemarlo, gli addetti al ristoro si avvcinano e alla mia richiesta di una brugola sfoderano un coltellino, ma non va bene. Cosí un ciclista al di fuori della gara mi presta la brugola e così posso risistemare il tutto; mi sento meglio e piú sicuro nella discesa. I km passano e a memoria della precedente gara mi mancano ancora un paio di salite, ma sono pedalabili, le affronto e cosí mi trovo a fare la lunga discesa, vado giú forte, ma la mente va al ricordo del ragazzo che ho visto con la faccia insanguinata e i medici che lo intubavano; all’arrivo scopro che ha perso la vita. Mi trovo ad affrontare gli ultimi 20 km, so che sono un piattone contro vento, ma non voglio far aspettare ancora Paola; cosí mi metto a crono e spingo rapporti duri, ho anche gratificazione da parte di un giudice donna, che vedendo che ”salto” gli avversari senza sfruttare la minima scia mi alza il pollice. Ricambio e spingo ancor di piú, la moto del giudice rallenta per ammonire degli avversari che si trovavano in scia e cosí la raggiungo e le chiedo strada. Meno 5 all’arrivo della frazione di bici, la gente che corre é tantissima, ma so che ho dato tutto quello che potevo e non me la prendo: chiudo in circa 6 ore e 30′ e, sommati all’ora e quaranta del nuoto, sono oltre le 8. Inizio la mia corsa, sapendo che ormai un altro Iron Man é finito, mi conosco e non mollo di sicuro, ho testa e se anche camminado so che la finish line é là. Corro regolare, copro i primi 2 giri dei 4 in un’ora l’uno; fa caldo e continuo a buttarmi acqua addosso, sfrutto tutte le docce. Cosí inzuppato bagno le scarpe ed inizio a sentire il piede che si lessa, le visciche formarsi; a ogni giro vedo Paola che mi immortala con la macchina fotografica, vorrei fermarmi a baciarla, ma ho paura di non ripartire piú. Il terzo giro é un calvario: alterno corsa con tratti di camminata, per trovare lo stimolo a riprendere a correre appena vengo sorpassato da tre avversari. Quando vedo il quarantesimo chilometro cambio marcia e, aiutato dalla folla e da una grande emotivitá, spingo con tutto quello che é rimasto dentro di me e arrivo tra le braccia di Paola che mi infila la medaglia al collo. Devo sedermi, non sto quasi più in piedi; ora si tratta solo di doversi godere questo altro successo, ricordando la scritta dietro al cappellino dato a Paola: ”Anythingh is possible”.

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